Le modifiche della legge quadro sulle aree protette tornano all’esame del Senato: brevi considerazioni critiche

L

di Carlo Alberto Graziani

  1. 1. Premessa

Occorre preliminarmente sottolineare la disorganicità del disegno di legge 109 (ddl Caleo), contenente modifiche della legge quadro sulle aree protette (l. 394 del 1991),  tornato alla verifica del Senato in terza lettura e attualmente all’esame della Commissione ambiente.

La disorganicità è dovuta principalmente alla sua origine. Esso infatti deriva direttamente dal ddl 1820 (D’Alì) presentato al Senato ben otto anni fa (precisamente il 13 ottobre 2009) che riguardava fondamentalmente le aree protette di mare: su quest’ultimo si sono stratificati in quella legislatura (XVI) e nell’attuale molteplici interventi con lo scopo di “aggiornare” la legge quadro, i quali però, privi di una logica unificante e mossi da interessi diversi, incidono fortemente sui principi e sulla linearità della legge e a volte finiscono per invadere campi altrui.

Vari sono gli esempi di questa disorganicità.  Se ne indicano solo alcuni:

  1. a) la previsione dell’area marina protetta come unica tipologia delle aree protette di mare (mentre nel ddl D’Alì originario essa era distinta dalla riserva marina) riconduce sotto un unico regime aree tra loro molto diverse, per alcune delle quali non avrebbe più alcun senso, ad esempio, la suddivisione in zone;
  2. b) sempre sulle aree marine protette, mentre l’art. 1 prevede la loro fusione con i parchi nazionali quando sono con essi confinanti e solo l’attribuzione della loro gestione ai parchi regionali confinanti, l’art. 17 si dimentica di questa distinzione e stabilisce il seguente principio generale: “Qualora un’area marina protetta sia istituita in acque confinanti con un’area protetta terrestre, la gestione è attribuita al soggetto competente per quest’ultima” con la conseguenza, quanto meno sproporzionata, di attribuire la gestione di un’area marina protetta a qualsiasi area protetta e perciò anche a una riserva naturale qualora confinante;
  3. c) il ddl prevede l’abrogazione dell’art. 3 della legge quadro e perciò anche la soppressione della Carta della natura; tale soppressione incide gravemente sul sistema: l’art. 8 della legge quadro stabilisce infatti che i parchi nazionali devono essere individuati e delimitati sulla base della Carta della natura; ma la riforma nulla più prevede in ordine a tali modalità, con la conseguenza che la legge istitutiva di ogni nuovo parco nazionale potrà procedere per proprio conto, a seconda gli interessi dei presentatori e della contingente volontà del Parlamento, con buona pace del sistema;
  4. d) secondo l’art. 9 del ddl il regolamento del parco nazionale disciplina (non più vieta) “il sorvolo di velivoli e droni non autorizzato, salvo quanto stabilito dalla disciplina sull’attività di volo”; oltre alla scarsa chiarezza della previsione, occorre rilevare che il sorvolo, se non è autorizzato dall’ente parco e non è previsto dalle leggi sul volo (come nel caso dei velivoli di linea, di soccorso, militari, ecc.), non può che essere vietato. Probabilmente i presentatori dell’emendamento approvato dalla Commissione ambiente della Camera volevano limitarsi ad aggiungere i droni a una norma molto chiara della legge quadro (è vietato “il sorvolo di velivoli non autorizzato, salvo quanto definito dalle leggi sulla disciplina del volo”: art. 11, comma 3, lett. h) di cui invece, con una certa leggerezza, prevedono l’abrogazione;
  5. e) il ddl inserisce alla fine della legge quadro (art. 33) una norma su un istituito di carattere generale – il Comitato nazionale per le aree protette – che dovrebbe essere collocata all’inizio al posto del soppresso Comitato per le aree naturali protette che era previsto all’art. 3;
  6. f) il citato art. 9 del ddl stabilisce, che il regolamento debba disciplinare lo svolgimento di esercitazioni militari: tale previsione è il frutto di un emendamento introdotto dalla Camera che ha modificato il testo del Senato che attribuiva al regolamento addirittura il compito di disciplinare il divieto di esercitazioni militari; in entrambi i casi però si tratta di un’evidente illegittima invasione di campo. Legittimo invece (e auspicabile) sarebbe il divieto di esercitazioni militari nelle aree protette stabilito per legge.
  1. 2. Violazione di alcuni principi fondamentali della legge quadro

Il ddl Caleo viola alcuni principi fondamentali contenuti nella legge quadro: il principio della centralità della natura che è alla base di ogni area naturale protetta; il principio dell’approccio scientifico nella gestione territoriale; il principio della natura mista dell’organo di governo del parco nazionale; il principio dell’intangibilità del territorio nei confronti di opere e attività impattanti.

  1. a) La violazione del principio della centralità della natura

Tale violazione appare evidente nell’art. 2 della riforma che, oltre ad abrogare, come si è visto, l’art. 3 della legge quadro, sostituisce l’intero art. 4  introducendo il “Piano nazionale triennale di sistema per le aree naturali protette”, o “Piano di sistema”, che, diversamente da quanto è stato sostenuto alla Camera dove è stato presentato il relativo emendamento, non ripristina il “Programma triennale per le aree naturali protette” che era stato inopinatamente soppresso dall’art. 76 del d.lgs. 112 del 1998. Che si tratti di una violazione del principio della centralità della natura lo dimostra il fatto che con l’abrogazione dell’art. 3 viene eliminata la Carta della natura.

Questa infatti ha lo scopo di identificare “lo stato dell’ambiente naturale”, “i valori naturali e i profili di vulnerabilità territoriale”, “le linee fondamentali  dell’assetto del territorio con riferimento ai valori naturali ed ambientali” e perciò costituisce la base su cui costruire un’effettiva programmazione delle aree naturali protette. E se è vero che, per inadempienza governativa, la Carta non ha avuto ancora esecuzione, è pur vero che lo stato  dell’ambiente naturale è comunque il riferimento fondamentale per un  piano o programma che intende avere come obiettivo la costruzione o il rafforzamento del sistema delle aree naturali protette: questo riferimento con il ddl viene a mancare.

Si aggiunga che il “piano di sistema”, malgrado il suo nome, non è un piano che tende a costruire o a rafforzare un sistema. Per un verso, con una norma puramente tautologica, afferma che il sistema esiste; per altro verso si presenta come un semplice piano finanziario destinato a incentivare nelle aree naturali protette programmi che, seppure di valore ambientale, non colgono la specificità di tali aree: sono infatti programmi che valgono  per qualsiasi parte del territorio perché hanno lo scopo di attuare  le politiche di mitigazione e di adattamento al cambiamento climatico e di perseguire gli obiettivi  di sviluppo sostenibile contenuti nell’Agenda globale 2030 e nella strategia nazionale delle Green communities di cui all’art. 72 della legge 221 del 2015 (che tende a promuovere la cosiddetta green economy).

La riforma mostra così di capovolgere la visione delle aree protette che ha caratterizzato la storia delle aree protette in Italia e nel mondo: la conservazione della natura non è più l’obiettivo fondamentale, ma solo uno strumento per raggiungere il vero obiettivo, quello dello sviluppo sostenibile che, anche se il riformatore parla di sviluppo sostenibile “integrale” riferendolo al settore dell’informazione e dell’educazione (ma l’integralità riguarda soprattutto il profondo delle persone e delle comunità), è nella sua vera ottica soprattutto economico. Nella visione della legge quadro vigente, invece, quello che oggi viene chiamato sviluppo sostenibile è solo uno strumento, necessario e importante, per realizzare l’obiettivo fondamentale che resta quello della conservazione della natura e della biodiversità.

Come si deduce in particolare dagli interventi sia del Presidente della Commissione che lo ha voluto sia del relatore della legge, a questo generico “piano di sistema”  la Camera ha inteso attribuire un’importanza strategica, tanto da ottenere un finanziamento – sia pure ipotetico – di 10 milioni di euro l’anno per tre anni, che costituisce l’unica eccezione di una certa rilevanza alla clausola dell’invarianza dei costi che percorre tutto il testo, e da  stabilire che il 70% del complesso delle royalties previsto dall’art. 12 sia destinato al suo finanziamento.

Appare singolare che il finanziamento  venga concesso a un piano siffatto e non invece a un vero piano per la conservazione della biodiversità.

  1. b) La violazione del principio dell’approccio scientifico nella gestione delle aree protette

Tale principio viene leso dalla irrilevanza del ruolo attribuito dalla riforma alla componente autenticamente scientifica nel Consiglio direttivo dei parchi nazionali. E’ necessario in proposito un chiarimento. 

Il dpr 73 del 2013, che aveva già modificato la composizione di quest’organo riducendone il numero con la risibile motivazione del risparmio di spesa, aveva soppresso la componente scientifica. La riforma apparentemente la ristabilisce, ma in realtà conferma  la soppressione.

La riforma (art. 7) prevede che il Consiglio direttivo sia formato dal Presidente e da otto componenti tutti nominati dal Ministro dell’ambiente: quattro designati dalla Comunità del parco e  quattro “scelti tra esperti in materia naturalistica e ambientale” di cui tre designati direttamente dal Ministro dell’ambiente, in rappresentanza il primo del suo  Ministero, il secondo delle associazioni scientifiche o dell’ISPRA, il terzo delle associazioni di protezione ambientale, e uno designato dal Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali in rappresentanza delle associazioni agricole e della pesca su indicazione di queste.

Ciò significa che il rappresentante delle associazioni scientifiche viene posto in alternativa al rappresentante dell’Ispra. Ma l’Ispra, anche se ha tra i suoi obiettivi la ricerca scientifica e se al suo interno operano tecnici di grande valore, non può essere considerato parte del mondo scientifico: la scienza è libera e i principi di libertà e autonomia caratterizzano il mondo scientifico; l’Ispra persegue i suoi compiti istituzionali sulla base delle direttive generali impartite dal Ministro dell’ambiente (art. 1, dello statuto dell’Ispra) che il suo rappresentante è tenuto a osservare: questi perciò non può operare in autonomia. Pertanto la presenza del vero rappresentante del mondo scientifico non è certa, ma solo possibile perché prevista come alternativa. Non solo, ma anche nell’ipotesi in cui il Ministro scelga quest’ultimo è proprio l’autonomia scientifica che viene lesa poiché, diversamente da quanto stabiliva originariamente la legge 394 prima del dpr 73 del 2013 – e cioè che la designazione dovesse essere effettuata autonomamente dal mondo scientifico nella sua più alta espressione (Accademia nazionale dei lincei, Società botanica italiana, Unione zoologica italiana, Consiglio nazionale delle ricerche, Università del territorio) -, la riforma prevede che a effettuare la designazione sia il Ministro dell’ambiente in base a una discrezionalità che il riferimento alle non meglio identificate “associazioni scientifiche” rende pressoché assoluta, tale da giustificare qualsiasi scelta.

Viene meno così un modello di gestione territoriale particolarmente importante in un’epoca in cui il rapporto tra scienza e politica diventa strategico per salvare il pianeta.

  1. c) La violazione del principio della natura mista della struttura di governo dei parchi nazionali

Tale principio discende da quel sapiente dosaggio effettuato dal legislatore del 1991 nell’individuare i componenti degli organi di gestione dei parchi nazionali tra rappresentanti degli interessi statali e rappresentati degli interessi locali (regionali, provinciali e soprattutto comunali) all’interno del Consiglio direttivo dei parchi nazionali che ha costituito una della principali ragioni del successo della legge.

Si tratta comunque – è necessario chiarire – di un equilibrio tra rappresentanti di interessi di carattere generale che si esprimono ai diversi livelli: anche i rappresentanti del livello di base, cioè dei comuni, rappresentano interessi generali (interessi della generalità di cittadini dei singoli comuni). Questo equilibrio viene rotto con l’introduzione, prevista dalla riforma (art. 7), del rappresentante delle associazioni  agricole o della pesca che è comunque rappresentante di interessi corporativi, cioè di una parte e non della generalità dei cittadini.

Si osservi in proposito: a) i molteplici interessi corporativi presenti in un parco trovano la loro mediazione e la loro presenza grazie alla partecipazione dei componenti designati dalla Comunità del parco i quali rappresentano tutti gli interessi del territorio; b) le associazioni agricole e della pesca rappresentano gli interi rispettivi settori e perciò anche i settori inquinanti e quelli commercialmente aggressivi, i quali oltre tutto costituiscono la parte sindacalmente più potente, anche se, come prevede la nuova norma, le indicazioni di queste associazioni devono essere “finalizzate alla maggiore sostenibilità delle attività agro-silvo-pastorali e della pesca”; c) in alcuni parchi quelle attività economiche sono marginali o addirittura inesistenti e invece prevalgono altre attività, soprattutto quelle legate al turismo e alla fruizione in generale; d) le attività economiche a partire da quelle agricole non inquinanti, la cui importanza strategica nell’azione della gran parte dei parchi è comunque indubitabile, potrebbero avere la loro sede in un’apposita Consulta, come del resto la stessa riforma prevede, ma solo per le aree marine protette; e) il testo approvato dalla Camera, differentemente da quello del Senato che faceva riferimento alle associazioni nazionali maggiormente rappresentativa, parla di semplici associazioni e dunque cresce notevolmente il rischio di un ulteriore rafforzamento delle rappresentanze locali, impostesi negli ultimi anni a causa delle concrete scelte ministeriali, con la conseguenza che gli enti parco nazionali si avvicineranno sempre di più a un nuovo tipo di enti locali.

  1. d) La violazione del principio dell’intangibilità del territorio nei confronti di opere e attività impattanti

Tale principio viene leso dalla previsione del sistema delle royalties, cioè dall’introduzione della logica “se paghi puoi inquinare” (che costituisce la degenerazione del principio “chi inquina paga”), cioè di una concezione che vede le risorse della natura come merce di scambio, oggetto di possibile baratto. Anche qui occorre qualche chiarimento.

E’ vero che sempre di più si avverte la necessità di trovare fonti di finanziamento alternative a quelle pubbliche che sono inevitabilmente limitate a causa della situazione finanziaria generale la cui criticità è ormai diventata strutturale. E’ vero altresì che, a seguito di un apposito emendamento introdotto dalla Commissione ambiente della Camera, le royalties sono previste solo in caso di opere già esistenti o di autorizzazioni già concesse e perciò viene meno il rischio che la prospettiva di entrate finanziarie renda più fragile la barriera che gli enti gestori possono erigere di fronte alla richiesta di nuovi impianti o di nuove attività qualora gli uni e le altre siano impattanti. Resta però il fatto che per quanto riguarda l’esistente tale rischio continua a sussistere:  è evidente infatti che, nel caso in cui impianti o attività siano o diventino lesive della biodiversità e in generale delle risorse naturali o paesaggistiche (ad esempio, una derivazione d’acqua che incida sul deflusso minimo vitale di un fiume o l’inquinamento provocato da un pozzo petrolifero o ancora l’installazione di pale eoliche su un crinale delicato) oppure quando si dovrà interpretare l’eccezione al divieto di prospezione, ricerca, estrazione e sfruttamento di idrocarburi liquidi e gassosi, introdotta dall’Assemblea della Camera, che fa “salve le attività estrattive in corso e quelle ad esse strettamente conseguenti” (eccezione tanto più grave quanto più vago e indeterminato è il suo campo di applicazione), l’azione dell’ente gestore a difesa di tali risorse diventa più debole perché viene inevitabilmente condizionata dalla prospettiva del corrispettivo monetario.

D’altra parte la destinazione del 70% degli introiti al Piano di sistema, come prevede l’art. 12,  non evita il condizionamento dell’ente gestore che comunque beneficia direttamente del 30%, ma soprattutto non diminuisce la gravità del principio “se paghi puoi inquinare”.

Questa concezione non muta se le royalties vengono versate una tantum, come prevede la riforma approvata dalla Camera, e non annualmente come era nel testo originario; né muta se il versamento avverrà – chissà quando – nel quadro del sistema volontario di remunerazione dei servizi ecosistemici, come prevede l’art. 36, perché si tratta pur sempre del pagamento per l’utilizzo di risorse naturali: siamo sempre in presenza di mercimonio.

Si osservi per inciso che i versamenti a cui sono tenuti i concessionari di attività ambientalmente impattanti hanno come obiettivo il “concorso alle spese per il recupero ambientale e della naturalità”; assai spesso però, per legge o per convenzione, il concessionario è tenuto non già a concorrere, ma a farsi interamente carico delle spese per il recupero ambientale. Pertanto con l ’ingresso delle  royalties vi è l’ulteriore rischio che il vantaggio si produca in capo al concessionario e lo svantaggio sia per l’ambiente: è l’eterogenesi dei fini.

  1. 3. Governo  dei parchi nazionali dequalificato

La dequalificazione della struttura di governo dei parchi nazionali, quale emerge da una lettura dell’art. 7 del ddl obiettiva e priva di condizionamenti, è un altro elemento fortemente negativo.

Essa riguarda innanzi tutto il Presidente al quale, oltre tutto, la riforma attribuisce ruolo e poteri di gran lunga maggiori rispetto a quelli previsti dalla legge quadro vigente:  egli, infatti, non si limita, come prevede attualmente la legge quadro, ad avere la  legale rappresentanza dell’Ente parco, a coordinarne l’attività, a svolgere le funzioni che gli sono delegate  dal  Consiglio  direttivo e ad adottare i provvedimenti urgenti, ma secondo il ddl esercita anche le funzioni di indirizzo e programmazione, fissa gli obiettivi e ne verifica la realizzazione.

A fronte di poteri così ampi al Presidente non vengono richiesti titoli specifici, ma soltanto “una comprovata esperienza in campo ambientale, nelle istituzioni, nelle professioni, ovvero di indirizzo o di gestione in strutture pubbliche o private” senza alcuna specificazione del settore e della durata dell’esperienza né della dimensione e della complessità della struttura. Occorre inoltre interpretare correttamente questa previsione soprattutto per quanto riguarda il riferimento all’“esperienza in campo ambientale” inserito dall’Assemblea della Camera: tale esperienza non è, come invece si è affermato, condizione necessaria per ottenere la nomina perché l’apposizione della virgola dopo il sintagma e la successiva congiunzione “ovvero” che è disgiuntiva dimostrano chiaramente come tale esperienza non sia che una delle possibili situazioni in cui si deve trovare il nominando. La conseguenza è che può accedere al ruolo presidenziale, e quindi svolgere funzioni di indirizzo e programmazione dell’Ente parco,  anche chi non ha alcuna competenza in campo ambientale purché dimostri di avere gestito una qualsiasi struttura privata o pubblica oppure di avere una qualsiasi esperienza in campo professionale o istituzionale.

Il rischio che venga nominato un Presidente senza qualità si rafforza se si considera che la procedura di nomina non costituisce una garanzia  perché attribuisce al Ministro dell’ambiente un’eccessiva discrezionalità senza quell’effettivo contrappeso che è condizione necessaria per un buon andamento della pubblica amministrazione: il Ministro infatti propone una terna ai presidenti delle regioni interessate; se entro il brevissimo termine di quindici giorni non viene raggiunta l’intesa (e la proposta potrebbe essere strumentale, per evitare appunto il raggiungimento dell’intesa),  il Ministro, sentite le Commissioni parlamentari competenti, sceglie “prioritariamente” all’interno della terna: il Ministro cioè – se si vuole dare un significato all’avverbio – potrebbe scegliere chi vuole (all’interno o all’esterno della terna).

  1. a) La dequalificazione riguarda anche il Consiglio direttivo. Questo è formato, oltre che dal Presidente, da otto componenti di cui, come abbiamo visto, quattro designati dalla Comunità del parco e quattro scelti tra esperti in materia naturalistica e ambientale su designazione del Ministro dell’ambiente (tre) e del Ministro delle politiche agricole (uno).

Si è già detto che in tal modo viene soppressa la componente autenticamente scientifica e fa ingresso invece una rappresentanza degli interessi corporativi. Si deve aggiungere che, mentre nella versione originaria dell’art. 9 della  legge quadro tutti i componenti del consiglio direttivo dovevano essere “scelti tra persone particolarmente qualificate per le attività in materia di conservazione della natura” e per il dpr 73 del 2013 attualmente vigente devono essere “individuati tra esperti particolarmente qualificati in materia di aree protette e biodiversità” (norme largamente disattese nella realtà), secondo la riforma la maggioranza del Consiglio – il Presidente e i quattro componenti designati dalla Comunità del parco – può essere del tutto incompetente in tali materie. Eppure il Consiglio deve deliberare “ in merito a tutte le questioni generali ed in particolare sui bilanci ….., sui regolamenti e sulla proposta di piano per il parco”.

  1. b) Anche i criteri di scelta del Direttore dei parchi nazionali sono tali da dequalificare fortemente questa figura e nello stesso tempo da tradirne il ruolo che è quello di un soggetto assunto quale dipendente a tempo determinato di un ente pubblico per svolgere funzioni dirigenziali di carattere generale particolarmente complesse.

Innanzi tutto la riforma abolisce l’ “Albo degli idonei all’esercizio dell’attività di direttore di parco” al quale oggi si accede mediante procedura concorsuale sulla base di titoli specifici e di qualità e al suo posto prevede una semplice selezione pubblica senza titoli specifici. Questa modifica è stata accolta generalmente con molta soddisfazione in quanto si ritiene che l’Albo attuale, al pari degli albi professionali, si caratterizza per la sua chiusura. In realtà non si tratta di un albo professionale, proprio perché l’Albo non è dei direttori ma degli idonei, e la sua “chiusura” è dovuta semplicemente al fatto che il Ministero dell’ambiente è venuto meno al suo dovere istituzionale di provvedere all’aggiornamento: in più di venticinque anni solo due volte è stato espletato il concorso per individuare gli idonei. E’ dunque del Ministero la responsabilità della chiusura dell’Albo, del progressivo restringimento del numero degli idonei e del conseguente innalzamento della loro età: aspetti questi che hanno causato un grave danno alla gestione dei parchi.

Con la riforma, dunque, il Direttore verrebbe nominato, di volta in volta, sulla base di detta selezione. A questa  possono prendere parte – purché siano laureati (ma non ha alcuna rilevanza  il tipo di laurea o di specializzazione) – “dirigenti pubblici, funzionari pubblici con almeno cinque anni di anzianità nella qualifica di riferimento, persone di comprovata esperienza professionale di tipo gestionale, ambientale, soggetti che abbiano già svolto funzioni di direttore di enti di gestione di aree protette nazionali o regionali per almeno tre anni nonché persone che abbiano esperienza di gestione di aree marine protette per il medesimo periodo”. In proposito occorre osservare che per  i dirigenti e per i funzionari pubblici non è richiesta alcuna competenza in campo ambientale e che vaghi e indeterminati sono i riferimenti all’ “esperienza professionale di tipo gestionale, ambientale” (dove la virgola in luogo della congiunzione rischia di rendere il riferimento ambientale solo eventuale) e all’ “esperienza di gestione di aree marine protette” (che può comprendere anche quella di un semplice collaboratore del Direttore).

A tutto ciò si aggiungano, da un lato, la composizione della commissione giudicatrice e, dall’altro, la procedura di nomina. La commissione giudicatrice è formata da tre componenti di cui due designati dall’Ente parco e il terzo, con funzioni di presidente, dal Ministro dell’ambiente. La commissione indica una terna: la terna, proprio perché tale, esclude la formazione di una graduatoria e perciò l’individuazione di un vincitore.  Nell’ambito della terna il Presidente del parco effettua la scelta. Il suo potere dunque appare assai ampio, forse eccessivamente ampio, anche se non è illimitato perché comunque discrezionale (deve essere giustificato) e perché il bando di selezione deve essere approvato con delibera del Consiglio direttivo ed essere sottoposto alla vigilanza del Ministro dell’ambiente prima della sua applicazione.

E’ evidente la diversità rispetto alla situazione attuale: oggi è il Ministro che nomina il Direttore scegliendolo in una rosa di tre candidati “motivatamente proposti dal Presidente del parco sulla base delle attitudini, delle competenze e delle capacità professionali possedute tenuto conto della specificità dell’incarico” (art. 9, comma 11, della legge quadro come modificato dall’art. 19 del d.lgs. 152 del 2006), anche se non possiamo nascondere la realtà e cioè che la proposta della terna è spesso strumentale. Nello stesso tempo è anche evidente e clamoroso il contrasto con i principi generali che regolano la dirigenza pubblica ed è un contrasto che pone anche un problema di violazione dei principi costituzionali: mentre “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso” (art. 97 della Costituzione), mentre “l’accesso alla qualifica di dirigente nelle amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, e negli enti pubblici non economici avviene per concorso indetto dalle singole amministrazioni ovvero per corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione”(art. 19, d.lgs. n. 165 del 2001), mentre  gli incarichi di funzioni dirigenziali devono essere conferiti solo “a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati o aziende pubbliche e private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro, o provenienti dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato” (art. 28, stesso d.lgs.), con questa modifica il Direttore di un parco – unica figura dirigenziale dell’Ente e comunque dipendente pubblico sia pure a tempo determinato, al quale viene garantito un trattamento economico equiparato a quello dei dirigenti non generali del comparto degli enti pubblici non economici – viene scelto senza concorso e senza specifici requisiti di qualità, sulla base di una procedura di selezione che corrisponde a quella prevista per l’individuazione di semplici esperti in settori determinati (art. 7, comma 6 e seguenti, d.lgs. 165) e che è di gran lunga più semplice rispetto a quelle che riguardano l’assunzione non solo degli altri soggetti incaricati di funzioni dirigenziali, ma in generale degli impiegati pubblici anche di livello più basso (per i quali l’art. 7 del d.p.r. 487 del 1994 prescrive un concorso che comprenda almeno due prove scritte, una delle quali può essere a contenuto teorico-pratico ed  una prova orale, oltre all’accertamento della conoscenza di una lingua straniera).

  1. 4. Aree marine protette: restano la cenerentola delle aree protette italiane.

Il ddl Caleo dimostra in maniera evidente l’incapacità di affrontare la questione delle aree protette marine: questione fondamentale perché esse rappresentano veri e propri tesori  italiani noti in tutto il mondo e invece restano la cenerentola delle aree protette. Il mancato finanziamento delle dotazioni organiche, ancorché minime, e la prevista elemosina di tre milioni di euro per ciascuno degli anni 2018, 2019 e 2020 al complesso delle 27 (o 30?) aree marine protette (art 18) ne sono clamorosa dimostrazione.

Del tutto disorganiche sono le norme contenute nella riforma.

Si è già detto dell’incongruenza della previsione dell’area marina protetta come unica tipologia di aree protette di mare. A complicare ulteriormente il sistema vi è la mancata abrogazione dell’art. 20 della legge quadro che fa riferimento sia ai “parchi marini” – di cui peraltro nessuno finora ha offerto un’interpretazione plausibile – sia alle riserve marine alle quali, come viene previsto testualmente, “si applicano le disposizioni del titolo V della legge 31 dicembre 1982, n. 979 (Disposizioni per la difesa del mare), non in contrasto con le disposizioni della presente legge”.

Quanto alla gestione restano, in via “prioritaria”, i consorzi con tutti i limiti di un accentuato localismo unito alla persistenza di una forte burocratizzazione. Non viene offerta alcuna indicazione sui criteri di costituzione di tali consorzi né sui criteri che il Ministro dell’ambiente deve adottare per l’affidamento della gestione se non quello, fondamentalmente burocratico, della scelta effettuata di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e quello, non particolarmente incisivo sul piano sostanziale, della scelta effettuata “sentite” le regioni e gli enti locali; la gestione, inoltre, viene effettuata “con il controllo e secondo gli indirizzi del Ministero dell’ambiente” il quale “definisce, con apposita convenzione, gli obblighi e le modalità per lo svolgimento delle attività di gestione dell’area marina protetta a cui si deve attenere il soggetto gestore”: massima discrezionalità, dunque, del Ministero e conseguente massima burocratizzazione.

Per la nomina del Direttore la riforma (art. 18) si limita a rinviare al Ministro dell’ambiente: il Direttore “è reclutato dall’ente gestore attraverso selezioni ad evidenza pubblica. Con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del  territorio e del mare sono stabiliti i requisiti necessari per la partecipazione ai relativi bandi, nonché, sentito il Ministero dell’economia e delle finanze, i criteri per la determinazione del trattamento economico”. E’ la chiara dimostrazione del rifiuto di affermare, anche per la nomina del Direttore, il principio di pari dignità delle aree marine protette con i parchi nazionali.

  1. 5. Associazioni

E’ previsto l’ampliamento della presenza di un’associazione di protezione ambientale sul territorio nazionale (da cinque a dieci regioni) per ottenere il riconoscimento del Ministero dell’ambiente (art. 26 della riforma).

In tal modo si impedisce l’accesso al riconoscimento, che addirittura viene revocato se già ottenuto, alle associazioni che operano in un territorio limitato, anche se su tale territorio sono di ampia o addirittura maggioritaria rappresentatività e di adeguata capacità di iniziativa, con la conseguenza di dar luogo a una sorta di oligopolio associativo.

E’ comunque da sottolineare la pretestuosità di questa norma almeno sotto un duplice aspetto: primo, perché se si vuole attribuire il riconoscimento ministeriale alle “vere” associazioni di protezione ambientale, cioè a quelle che operano effettivamente sul territorio per tutelare l’ambiente, non è certo il facile criterio della estensione territoriale quello che occorre adottare, bensì una serie di criteri, certo più complessi, che riguardano la qualità e l’efficacia dell’azione; secondo, perché comunque il riconoscimento è fuori tema, non riguarda affatto la materia delle aree naturali protette.

  1. 6. Parco del Delta del Po

E’ prevista l’istituzione, previa intesa tra le Regioni Emilia-Romagna e Veneto, del Parco del Delta del Po non come parco nazionale o interregionale, ma come “un unico parco” (art. 27 della riforma).

La norma è confusa e contraddittoria perché, per un verso, sembra escludere che si possa configurare uno dei tipi previsti dalla legge quadro (parco nazionale, interregionale, regionale) e perciò si possa applicare la relativa disciplina poiché prevede che l’assetto organizzativo, le finalità e la gestione debbano essere stabiliti da un apposito decreto legislativo; per altro verso le finalità di questo “unico parco” sono le stesse di quelle che la legge quadro attribuisce in via generale ai parchi.

   Una possibile spiegazione di questa contraddizione risiede nella volontà di evitare di procedere nel percorso istitutivo del parco: si rinvia pertanto la scelta definitiva alla previa intesa tra le due Regioni confidando nella loro incapacità di raggiungerla come non sono riuscite a raggiungerla in ben venticinque anni per l’istituzione di quel parco interregionale previsto dall’art. 35 della legge quadro.

Il rischio che si corre è dunque di un’interruzione definitiva del percorso che deve portare alla sostanziale unificazione di due parchi (a prescindere dalla forma che si riterrà di adottare): esigenza imprescindibile se si vuole effettivamente salvaguardare una delle aree più importanti d’Europa dal punto di vista naturalistico (unico caso tra i delta dei grandi fiumi europei a non essere tutelato unitariamente).

Appare pertanto molto grave la previsione secondo cui “il mancato raggiungimento dell’intesa preclude l’adozione de decreto”:  è forse l’annuncio della rinuncia del Parlamento a proseguire sulla strada dell’unificazione attribuendo la responsabilità alle Regioni?

  1. 7. Le omissioni

La riforma non affronta una serie di problemi  la cui mancata soluzione ostacola, a volte gravemente, l’azione dei parchi. Tra le omissioni più gravi si segnalano le seguenti:

  1. a) l’ancoraggio dei parchi nazionali alla legge 70 del 1975 previsto dall’art. 9, comma 13, della legge quadro. A causa di tale ancoraggio gli enti parco, che hanno poche unità di personale (il Parco nazionale del Circeo ne ha sei), sono soggetti allo stesso regime al quale sono tenuti enti con migliaia di dipendenti (es. l’Inps) per quanto riguarda la regolamentazione del lavoro dipendente, i controlli sul bilancio di previsione e sul conto consuntivo, le norme di contabilità e di amministrazione, con conseguenze che inevitabilmente rallentano e a volte paralizzano la loro azione e che sono la causa principale dell’accusa di burocratizzazione a essi rivolta. Risiede qui la vera causa della burocratizzazione degli enti;
  2. b) il ruolo e la composizione della Comunità del parco. Quanto al ruolo, da un lato la soppressione del piano pluriennale economico e sociale fa venir meno la sua competenza fondamentale e, dall’altro, la prevalenza della rappresentanza locale in seno al Consiglio direttivo toglie a essa gran parte della ragione stessa della sua esistenza;  quanto alla composizione, il numero dei componenti è identico per tutti i parchi nazionali a fronte delle loro grandi differenze istituzionali e di estensione. Il disinteresse mostrato finora dal dibattito non solo parlamentare su questo organo, che nel disegno della legge quadro ha invece un’importanza fondamentale soprattutto per quanto riguarda la partecipazione delle collettività locali, è segno che è mutato l’atteggiamento nei confronti di tale questione: un mutamento inconsapevole, e perciò più significativo, che deriva in parte dalla difficoltà della questione, ma in parte dalla banalizzazione, voluta dalla riforma, del ruolo dei parchi considerati sempre di più alla stregua di enti locali se non addirittura come agenzie locali di sviluppo agrituristico ed enogastronomico;
  3. c) la dipendenza  del personale di sorveglianza dagli Enti parco nazionali. La legge quadro prevede la dipendenza “funzionale” del personale del Corpo forestale dello Stato a cui l’art. 21 della legge quadro attribuisce il ruolo di sorveglianza: tale dipendenza pone problemi di efficacia e di speditezza dal momento che gli Enti parco – tranne il PN del Gran Paradiso e il PN d’Abruzzo, Lazio e Molise che, in virtù delle rispettive leggi istitutive hanno propri corpi di sorveglianza – non possono disporre direttamente di quel personale che dipende gerarchicamente dai propri comandanti. I problemi sono destinati ad ampliarsi  con il d.lgs. 19 agosto 2016, n. 177, sull’assorbimento del Corpo forestale dello Stato nell’Arma dei carabinieri (assorbimento che, sia detto per inciso, pone seri problemi di legittimità costituzionale);
  4. d) la mancata previsione di una normativa sulle piante organiche dei parchi nazionali e delle aree marine protette;
  5. e) la mancata previsione del divieto del traffico motorizzato fuoristrada: si tenga presente in proposito che siffatto traffico sta diventando la grande piaga delle aree protette terrestri, soprattutto di quelle collinari e montane.
  1. 8. Modifiche positive

Gli elementi negativi fin qui indicati sono talmente gravi da lasciare inevitabilmente in ombra gli aspetti positivi che pure sono numerosi, ma non tali da riuscire a modificare il giudizio complessivo.

Si indicano di seguito, solo per titoli, gli aspetti positivi più significativi.

  1. a) Introduzione del sottotipo “parco nazionale con estensione a mare”: l’estensione a mare ricomprende le aree marine protette contigue al parco terrestre e sembra possa ricomprendere anche zone che non sono aree marine protette, ma alle quali si estende la disciplina propria di tali aree;
  2. b) Connessione tra la Rete Natura 2000 e il sistema delle aree protette ai fini della conservazione della biodiversità;
  3. c) Affidamento agli enti di gestione delle aree protette della gestione delle aree della Rete Natura 2000 quando siano comprese nel territorio di parchi, riserve e aree marine protette e anche, ove possibile, quando siano “esterne” a esso;
  4. d) Inserimento integrale nei parchi nazionali delle aree marine protette ad essi contigue;
  5. e) Affidamento ai parchi regionali della gestione delle aree marine protette ad essi contigue;
  6. f) Individuazione del ruolo dell’Ispra per le aree protette;
  7. g) Fissazione di tempi definiti per la nomina del Presidente dei parchi nazionali, per l’approvazione del piano del parco e del regolamento, per il rilascio di pareri, intese, pronunce o nulla osta richiesti dall’ente gestore di un’area protetta;
  8. h) Abolizione di determinati limiti di spesa;
  9. i) Sistema fiscale agevolato (anche se con un finanziamento molto ridotto);
  10. j) Divieto dell’elisky;
  11. k) Applicazione al Presidente dei parchi nazionali e regionali e ai componenti del Consiglio direttivo dei parchi nazionali, qualora siano dipendenti pubblici, delle norme su permessi e licenze previste per i sindaci con popolazione superiore a 30.000 abitanti;
  12. l) Indicazione delle aree contigue nel piano del parco d’intesa con le Regioni e non più su iniziativa di queste;
  13. m) Interlocuzione con il Ministero dei beni ambientali e delle attività culturali e del turismo nella elaborazione del piano del parco;
  14. n) Attribuzione agli enti parco di competenze in materia di autorizzazione paesaggistica;
  15. o) Indicazione precisa degli atti sottoposti alla vigilanza ministeriale: approvazione degli statuti, dei regolamenti, dei bilanci annuali e delle piante organiche;
  16. p) Abolizione del silenzio assenso per la concessione dei nulla osta;
  17. q) Aumento (generalmente raddoppio) delle sanzioni pecuniarie e maggiore incisività della confisca dei beni.

16 agosto- 16 settembre 2017

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