Nuovo e vecchio titolo V

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L’esigenza e l’urgenza di una riflessione critica sul nuovo titolo V della Costituzione è data soprattutto, ma non solo, dall’approssimarsi del voto sulla riforma del Senato. Il ruolo infatti della nuova camera è indissolubilmente connesso alle competenze, specialmente dopo l’abrogazione delle province, delle regioni e dei comuni.

Competenze peraltro connesse oggi in maniera rilevante e determinante a quelle comunitarie, soprattutto in riferimento al governo del territorio e dell’ambiente, per quella che è stata definita la fase ascendente nei confronti dell’Unione Europea.

Che il vecchio titolo V non sia riuscito nonostante i suoi espliciti propositi a realizzare quella leale collaborazione costituzionale e istituzionale a cui giustamente mirava è innegabile. L’effetto è stato opposto, come testimonia lo sconcertante incremento proprio di quella conflittualità costituzionale penalizzante e paralizzante a cui si voleva porre finalmente rimedio. Se questo è incontestabile non lo sono altrettanto invece la cause e le responsabilità di cui deve tener conto il nuovo titolo V, se non si vuole bissarne il fallimento. Per lo stato, come conferma senza ombra di dubbio il testo in discussione, le colpe sono esclusivamente o quasi delle regioni e degli enti locali, e non solo sul fronte della spesa pubblica. E siccome non hanno saputo o voluto avvalersene come avrebbero dovuto e potuto, questa volta non bisogna ripetere lo stesso errore; a questo mira in sostanza il nuovo titolo V. E il solo modo per farlo è ridimensionare alle regioni le loro competenze, circoscrivendole ad un ambito che escluda di fatto quello nazionale, che deve tornare armi e bagagli allo stato. Da qui il venir meno di quella competenza concorrente con la quale si era tentato di adeguare il governo del territorio al principio costituzionale che vuole che la Repubblica costituita da stato, regioni e autonomie sia governata in concertazione su un piano di pari dignità.

Il nuovo titolo V, che lascia inalterata la situazione tra regioni ordinarie e regioni speciali e province autonome, cancella perciò la legislazione concorrente e riporta la maggior parte delle competenze in seno allo stato centrale. Non solo: lo stato può commissariare anche regioni ed enti locali in caso di dissesti finanziari. Può premiare le regioni virtuose e introduce una clausola di supremazia verso le regioni, a tutela dell’unità della Repubblica e dell’interesse nazionale. Quell’interesse nazionale che è stato a lungo alla base del nostro centralismo e che il nuovo articolo della Costituzione aveva giustamente inteso ‘correggere’, per consentire quella programmazione negoziata strettamente collegata ai luoghi e quindi allo sviluppo sostenibile. Alla cui gestione non bastava e non basta come riconosciuto dal comitati dei saggi la Conferenza Stato-Regioni.

Ora viene rovesciato il sistema per distinguere le competenze dello stato da quelle delle regioni. Sarà lo stato a determinare la sua competenza esclusiva per quanto riguarda la politica estera, immigrazione, rapporti con la Chiesa, difesa, moneta, burocrazia, ordine pubblico. Insomma una ridefinizione delle competenze esclusive dello stato e di quelle ‘residuali’ delle regioni, per addivenire ad un regionalismo cooperativo che di cooperativo ha ben poco.

Allo stato competerebbero così l’ordinamento dei comuni, città metropolitane e aree vaste, ambiente, ecosistema, beni culturali e paesaggistici, turismo, le norme generali del governo del territorio; alle regioni quelle competenze che non sono espressamente riservate allo stato e la pianificazione infrastrutturale.

Si tratta di materie e ancor più di ambiti non riconducibili, come più volte ribadito dalla Corte costituzionale, in cui operano leggi e direttive comunitarie in cui lo stato, senza bisogno di ricorrere alla Corte costituzionale, è intervenuto con leggi o comportamenti che hanno già ridimensionato spazi regionali e locali: basti pensare al nuovo Codice dei beni culturali sul paesaggio, sottratto anche alla pianificazione dei parchi, o alla legge 183 sui bacini idrografici, i cui piani non si sa che fine hanno fatto, come del resto i distretti, in attesa da anni di prenderne il posto sulla base delle norme comunitarie finora del tutto ignorate.

Qui le regioni non c’entrano, se non per avere subito senza colpo ferire queste politiche governative che hanno dissestato l’ambiente e messo in crisi il governo del territorio. Come è stato detto qui tocchiamo con mano gli effetti perversi delle decisioni di un ceto politico parlamentarizzato, della anchilosi di apparati centrali, della ipertrofia legislativa e amministrativa che il nuovo titolo V anziché correggere premia.

Se le competenze concorrenti non hanno superato la prova, la risposta non può essere quella di rinunciare a quel regionalismo cooperativo che resta il vero nodo da sciogliere, senza arroganze di rivincita che aggiungerebbero nuovi danni a quelli già prodotti.

Avrebbe davvero poco senso un senato delle autonomie per inaugurare un nuovo centralismo.

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